Il Milan tra speculazioni e nostalgia: dall'eredità di Berlusconi alla gestione americana

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Quando il calcio diventa solo business

San Siro non è più lo stesso. Chi attraversa oggi i tornelli dello stadio più iconico del calcio mondiale si trova di fronte a uno spettacolo che avrebbe fatto rabbrividire i tifosi di una volta: spalti che si riempiono più di turisti in cerca di selfie che di milanisti con la sciarpa al collo, cori sostituiti dal rumore discreto di chi è lì per "vivere un'esperienza" piuttosto che per sostenere una squadra.

È questa la fotografia di un Milan che, negli ultimi anni, sembra aver smarrito non solo la propria identità tecnica, ma soprattutto quella passione popolare che ne aveva fatto uno dei club più amati e temuti al mondo. Una deriva che affonda le radici in scelte societarie discutibili e in una visione del calcio sempre più aziendalista, dove i bilanci contano più dei risultati sul campo.

L'eredità amara del Cavaliere

Per comprendere il presente rossonero, bisogna necessariamente tornare agli ultimi anni dell'era Berlusconi. Il Cavaliere, pur restando una figura indiscutibile nella storia del Milan e del calcio mondiale, commise negli ultimi tempi della sua gestione un errore che si è rivelato fatale per il futuro del club.

La promessa era chiara e solenne: il Milan sarebbe stato ceduto solo a chi avesse garantito la continuità dell'eccellenza, mantenendo la squadra "ai massimi livelli". Una dichiarazione che aveva tranquillizzato i tifosi, convinti che il patron avrebbe scelto con cura il successore per preservare l'eredità di decenni di vittorie e prestigio.

Invece, nel 2017, arrivò la cessione a Li Yonghong, un imprenditore cinese sulla cui solidità finanziaria aleggiavano già allora non pochi dubbi. Una scelta che oggi appare incomprensibile, o forse troppo comprensibile ahimè: come si poteva affidare un patrimonio sportivo di tale valore a una figura così opaca, della quale si sono poi letteralmente perse le tracce?

La gestione Li durò appena un anno, il tempo sufficiente per portare il club sull'orlo del fallimento. Quando nel 2018 Elliott Management Corporation subentrò per proteggere i propri investimenti, il Milan era già un paziente in terapia intensiva, costretto a rispettare i paletti del Fair Play Finanziario e a rinunciare a qualsiasi ambizione di mercato.

La strategia americana: stadio e speculazioni

L'arrivo degli americani ha portato stabilità finanziaria, questo è innegabile. Ma ha anche rivelato una visione del calcio radicalmente diversa da quella europea e, soprattutto, da quella che aveva caratterizzato il Milan vincente.

Per Elliott prima, e per RedBird Capital Partners oggi, il Milan appare più come un asset da valorizzare che come un progetto sportivo da far crescere. Non è un caso che il tema centrale delle strategie societarie sia diventato il nuovo stadio, una questione che va ben oltre la semplice necessità di ammodernare l'impianto.

Il nuovo San Siro rappresenta infatti un'operazione immobiliare di proporzioni enormi, con la possibilità di sviluppare l'intera area di San Siro attraverso progetti che potrebbero generare profitti miliardari. In questo contesto, la squadra di calcio rischia di diventare quasi un corollario, uno strumento per legittimare operazioni ben più redditizie nel settore immobiliare.

Il declino tecnico e la fine di un'epoca

Sul campo, i risultati di questa gestione sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante lo Scudetto del 2022 – arrivato più per i demeriti altrui che per meriti propri –, il Milan di oggi è una squadra mediocre, priva di un'identità di gioco chiara e affidata a giocatori che, con tutto il rispetto, difficilmente avrebbero trovato posto nelle formazioni rossonere del passato.

La "masnada di improvvisati" che oggi indossa una delle maglie più prestigiose al mondo è il risultato di scelte tecniche discutibili e di un mercato fatto più di opportunismi che di progettualità. Giocatori presi per il loro costo contenuto piuttosto che per la loro qualità, allenatori scelti più per la loro docilità che per la loro competenza.

Ma il simbolo più evidente di questa deriva è stato l'allontanamento di Paolo Maldini. Cacciare l'anima storica del club, l'uomo che incarnava più di chiunque altro i valori e la tradizione rossonera, ha rappresentato non solo un errore tecnico, ma soprattutto un messaggio chiaro: nel Milan di oggi non c'è più spazio per chi antepone la passione al business.

L'impunità dei fallimenti: quando nessuno paga

Ma la prova più lampante della mancanza di un progetto sportivo serio è un dato di fatto incontrovertibile: di fronte a risultati sportivi miserrimi, non uno dei dirigenti è stato esautorato. Nemmeno uno. È una situazione senza precedenti nella storia del calcio professionistico, dove tradizionalmente le responsabilità vengono sempre attribuite a qualcuno.

Il caso del Milan Futuro è emblematico e vergognoso allo stesso tempo. La squadra Under 23, nata con grandi ambizioni e investimenti consistenti – una fortuna se paragonata alle spese delle altre squadre di Serie C –, è riuscita nell'impresa di retrocedere in Serie D. Un fallimento totale, una figuraccia internazionale per un club che si definisce ancora "grande". Eppure, anche di fronte a questa débâcle, nessun dirigente ha pagato, nessuna testa è saltata, nessuna responsabilità è stata assunta.

È la dimostrazione più evidente che nel Milan attuale non esistono obiettivi sportivi reali, non c'è una cultura della responsabilità, non c'è nessuno che risponda dei risultati. Tutto si riduce a numeri di bilancio e operazioni di marketing.

La vergogna del mercato estivo: 200 milioni incassati e buttati al vento

L'ultima estate di mercato ha fornito la conferma definitiva di quanto sia superficiale e improvvisata la gestione tecnica rossonera. La sconfitta casalinga all'esordio contro la Cremonese – una squadra appena promossa dalla Serie B – non è stata un incidente di percorso, ma il risultato prevedibile di scelte scellerate.

Il Milan ha incassato circa 200 milioni di euro dalle cessioni di giocatori, una cifra enorme che avrebbe dovuto consentire una rivoluzione tecnica di qualità. Invece, cosa è successo? Di quei 200 milioni ne è stata reinvestita solo una minima parte, e per giunta in modo discutibile. È arrivato Luka Modrić, indubbiamente una leggenda del calcio ma ormai una vecchia gloria che a 39 anni difficilmente può essere considerato un investimento per il futuro.

Il resto del mercato è stato un susseguirsi di "scommesse" a basso costo: giovani dal talento tutto da dimostrare, ragazzini presi nella speranza che uno o due possano esplodere, ma senza nessuna certezza tecnica immediata. È la filosofia del "forse, magari, chissà" applicata a una squadra che dovrebbe lottare per i massimi traguardi, mentre la maggior parte dei soldi delle cessioni è semplicemente sparita nelle casse societarie.

Il reparto offensivo è forse l'esempio più grottesco di questa gestione. Un solo attaccante di ruolo di cui lo stesso allenatore non si fida completamente, alternato da un giovane danese che fino a poco tempo fa era una riserva dello Sporting Lisbona. È questa la ricostruzione dell'attacco del Milan? È questa la risposta alle ambizioni di una tifoseria che ha visto campioni come Kaká, Shevchenko, Inzaghi?

Una vergogna senza pari, che insulta la storia e la dignità di questo club.

San Siro turistico: la morte della passione

Il risultato di tutto questo è un San Siro sempre più simile a un museo che a un tempio del calcio. I prezzi dei biglietti, calibrati più sui turisti che sui tifosi locali, hanno allontanato quella componente popolare che aveva fatto la storia del tifo rossonero.

Oggi San Siro si riempie di famiglie in gita, di appassionati occasionali, di curiosi attratti più dal brand che dalla squadra. Mancano le voci rauche dei vecchi tifosi, mancano i cori spontanei, manca quella passione viscerale che trasformava ogni partita in una battaglia.

Ma c'è un aspetto ancora più grave: questa società ha di fatto azzerato anche la libertà del dissenso civile. Con la scusa delle inchieste sulle infiltrazioni della malavita nelle curve – inchieste sacrosante e legittime, sia chiaro, e per le quali i colpevoli devono pagare fino in fondo – dopo la manifestazione di dissenso verso l'operato societario di fine maggio, i componenti delle curve sono stati di fatto messi fuori dallo stadio, impedendone l'acquisto dei biglietti in vario modo.

E non solo: sembra che anche i parenti dei curvaioli siano diventati dei reietti da tenere fuori da San Siro. È la strategia del "si fa presto a dire terrorista": si mischiano le carte tra criminalità vera e dissenso legittimo per silenziare ogni voce critica. Il risultato è un tifo addomesticato, privato non solo della passione ma anche del diritto di protestare civilmente contro una gestione che sta distruggendo l'identità del club.

È questo il prezzo del calcio moderno? Probabilmente sì, ma vedere il Milan ridotto a un prodotto di marketing controllato e privato anche delle voci critiche fa male a chiunque abbia vissuto le notti magiche di Coppa dei Campioni o abbia gioito per le vittorie di Kaká, Shevchenko, Baresi, Nesta, Maldini, Van Basten, Weah, Gullit, Rivera e tutta la fila infinita di campioni che hanno fatto grande la storia sia rossonera che del calcio mondiale.

Verso dove va il Milan?

La domanda che ogni tifoso del Milan si pone oggi è semplice: questo club ha ancora un futuro da grande squadra o è destinato a diventare definitivamente un brand da sfruttare?

Le risposte, purtroppo, sembrano orientate verso la seconda ipotesi. Finché la priorità resterà il nuovo stadio e le operazioni immobiliari collegate, finché si continuerà a considerare la squadra come un costo da contenere piuttosto che come un investimento su cui puntare, il Milan rimarrà quello che è oggi: un club di media classifica con un grande passato.

Per i tifosi che hanno vissuto i fasti del passato, non resta che la nostalgia. E la speranza, forse vana, che un giorno qualcuno torni a vedere nel Milan quello che ha sempre rappresentato: non un'azienda da far fruttare, ma una passione da alimentare, una storia da continuare a scrivere, un sogno da realizzare ogni domenica sul prato di San Siro.

Ma per ora, quel sogno sembra essere finito in un cassetto, insieme ai progetti di chi credeva ancora che il calcio potesse essere qualcosa di più di un semplice affare.

Postilla personale

Scrivo queste righe da ex viscerale tifoso del Milan, uno che del calcio conosceva quasi tutto, che viveva ogni partita come una questione personale, che seguiva non solo la prima squadra ma anche le giovanili, che sapeva i nomi dei giovani in prestito nelle serie minori.

Oggi ho scoperto per caso che il Pisa è in Serie A. Io, che una volta sapevo la formazione a memoria di ogni squadra di ogni categoria.

Il disgusto per quello che è diventato il Milan mi ha portato a disamorarmi quasi completamente del calcio in generale. Non è solo una questione di risultati sportivi: è vedere trasformato in puro business qualcosa che era passione, identità, appartenenza. È assistere alla morte di un mondo che aveva le sue regole, i suoi valori, la sua etica.

Mi chiedo spesso: sono il solo a provare questo malessere? O c'è un esercito silenzioso di ex appassionati che, come me, ha spento la televisione la domenica pomeriggio? Quanto può essere diffuso questo disamoramento prima che il calcio si accorga di aver perso la sua anima insieme ai suoi tifosi più autentici?

Forse è questo il vero prezzo del calcio moderno: non solo stadi vuoti di passione e pieni di turisti, ma intere generazioni di appassionati che voltano le spalle a quello che un tempo era il loro mondo.

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